Ho seguito anch’io in diretta i lavori della Direzione del PD dell’altro ieri. E debbo dire che – nonostante le diversità d’impostazione e soprattutto d’umore di una parte degli intervenuti, a causa dell’incontro di Renzi con Berlusconi – il dibattito tuttavia procedeva tranquillo, costruttivo e anche con un apprezzamento da parte di Cuperlo e altri non renziani per l’iniziativa sulle riforme portata avanti con determinazione e tempestività da parte del segretario del PD. La mossa di Renzi, infatti, con la trasformazione dell’hispanicum nell’italicum, aveva sortito l’effetto positivo di far convergere sulla sua proposta anche chi nella maggioramza (come il Ncd) che, non gradendo la proposta originaria, pensava di tenersi fuori dall’accordo; e, più in generale, aveva rimesso in movimento una situazione politica che sembrava essere ormai sull’orlo di un pericoloso avvitamento su se stessa – anche per le bordate continue che arrivavano dal sindaco di Firenze e dai suoi luogotenenti verso Letta e il governo –, con il rischio quindi o d’un galleggiamento senza prospettive o addirittura della fine del governo, con l’apertura di una crisi al buio e l’addensarsi di nuovo sull’Italia delle nuvole nere dello spread, la sfiducia dei mercati, ecc. Ma ecco – proprio alle battute finali del dibattito – la scelta di Renzi di attaccare frontalmente e personalmente Cuperlo sulla questione (non proprio di lana caprina) della necessità di restituire ai cittadini con la nuova legge elettorale il diritto di scegliere anche i parlamentari, oltre al partito, negato in questi anni dalporcellum. E purtroppo, ad ascoltarle, le parole di Renzi non apparivano affatto come uno scivolone che può capitare a tutti o – come qualcuno ha detto dopo il fattaccio – una semplice caduta di stile: le parole erano state pensate e lo scopo era appunto quello di umiliare Cuperlo e le forze che egli ha rappresentato nel corso delle primarie.
E’ chiaro che nessuno può togliere a Renzi – e non sarebbe neppure giusto – il merito della sua iniziativa sia per quanto riguarda la legge elettorale che il pacchetto di riforme costituzionali ad essa collegato e che attengono a questioni fondamentali per il funzionamento del sistema politico e per dare più efficienza e rapidità all’azione di governo.
Naturalmente, si tratta di vedere nelle prossime settimane se – al di là degli impegni formali assunti dalle forze che si sono dette favorevoli in linea di massima – queste proposte (assieme al Piano per il lavoro) riusciranno davvero a trasformarsi in leggi dello Stato: le esperienze in materia, sia recenti che lontane, non incoraggiano all’ottimismo, ma è evidente che Renzi con la sua iniziativa un risultato l’ha comunque ottenuto, quello appunto di rimettere al centro dell’agenda politica nazionale la necessità di procedere rapidamente a quelle riforme costituzionali e a misure capaci di affrontare seriamente il problema cruciale del lavoro che sole possono evitare un nuovo deragliamento del Paese.
Io non so quanti ancora ricordino l’insistenza di Bersani, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, sulla esigenza e l’urgenza di far leva contemporaneamente – per la ricostruzione dell’Italia dalle macerie berlusconiane – sulle due questioni che già allora apparivano centrali per far uscire il Paese dalla crisi: la questione sociale e la questione democratica.
Bersani coglieva i punti veri della svolta di cui l’Italia aveva bisogno; ma sappiamo tutti come come sono andate le cose e che tutto, purtroppo, è rimasto appeso per aria. Perciò è stato giusto oggi ripartire da quelle due questioni ed è giusto oggi compiere ogni sforzo per cercare di portare a casa risultati concreti. Anche perché i rischi per l’Italia si sono fatti, nel frattempo, più gravi: intanto perché la crisi si è fatta ancora più drammatica e colpisce fasce sempre più larghe di popolazione e poi perché la democrazia italiana “periclita” (per dirla con Machiavelli) sempre di più per la presenza di forze che – più di ieri – possono metterla a repentaglio (si rifletta a come è cresciuto il numero di quelli che ritengono che si può vivere anche eliminando i partiti e a quanto in basso è arrivata la fiducia dei cittadini nei confronti della politica e dei politici); e l’unico modo per bloccare e neutralizzare i guastatori di turno – da Berlusconi a Grillo – è ancora oggi la capacità del PD di stringere i tempi sia sulle riforme costituzionali che sulla crescita attraverso quel patto che Letta intende firmare con le varie componenti della maggioranza di governo.
Ma, se la situazione è questa e c’è bisogno quindi di uno sforzo straordinario e convergente tra tutte le anime del Pd per far andare avanti il processo riformatore e ridare slancio all’attività di governo, perché allora Renzi si è lasciato andare a una polemica non solo inopportuna e divisiva, ma anche francamente pretestuosa su un tema – quello della possibilità per gli elettori di scegliere i candidati da mandare in Parlamento – molto sentito dall’opinione pubblica e largamente utilizzato in questi anni per alimentare l’antipolitica? E inoltre, diciamolo chiaramente, che senso ha l’osservazione di Renzi sui danni prodotti dalle preferenze in termini di corruzione e sul fatto che la sinistra non ha mai detto di volerle reintrodurre? Tutti invece sappiamo che il PD non ne ha mai parlato perché puntava ai collegi uninominali, dove le preferenze non servono; e poi, se si adotta un altro modello elettorale, è normale che si ragioni in maniera diversa sul modo di ridare il diritto di scelta agli elettori, sapendo tra l’altro che, nel modello indicato da Renzi, siamo di fronte a piccole circoscrizioni (le province, essenzialmente) che consentono quindi ai candidati di contattare agevolmente gli elettori, senza dover disporre di cifre pazzesche. Quanto poi alla corruzione, pur essendoci le liste bloccate, essa ha toccato in questi anni punte mai conosciute. E le ragioni di fondo di questo stato di cose non stanno certamente nelle preferenze: esse vanno cercate innanzitutto e soprattutto nel deterioramento della vita pubblica, provocato dal berlusconismo; e nella cultura che da decenni ormai domina l’intera società italiana (e non solo una parte del ceto politico) e che indica nella capacità di accumulare denaro comunque e a qualunque costo il non plus ultra del successo.
Ma Renzi dice anche che quello è l’accordo raggiunto; e quindi di esso non si può toccare nessun tassello (a partire dalla questione delle preferenze, che proprio Berlusconi non vuole), altrimenti salta tutto.
Capisco la sua preoccupazione, ma allora perché si accusa Letta di non avere a suo tempo rinviato al mittente la richiesta di Berlusconi di abolire l’IMU, scongiurando così l’effetto perverso che la sua abolizione ha poi prodotto (quello cioè di aggravare il peso fiscale sugli italiani)? Anche allora si disse che poteva saltare tutto. E però è evidente che, se è stato un errore ieri il non aver combattuto una misura che già si sapeva si sarebbe rivelata sbagliata, non si può oggi commettere un analogo errore su un tema così sensibile tra la grande opinione pubblica, fornendo contemporaneamente anche nuovi argomenti all’antipolitica.
Ma, al di là di questi aspetti, rimane aperta la domanda: perché Renzi ha scelto la strada dell’attacco personale a Cuperlo e quindi la strada della rottura con lui e con quello che egli rappresenta?
Di norma, soprattutto in presenza di una situazione così complicata e pericolosa come quella italiana, il segretario del partito punta a unire le forze e non a dividerle; e invece si sta rischiando che accada proprio il contrario.
Secondo alcuni renziani, nessuno dei quali ha finora osato dire a Renzi che gesti come quello contro Cuperlo (che fa seguito a quello del “Fassina chi?”) non aiutano certamente l’unità del PD, in verità la responsabilità della rottura risale a Cuperlo che andava solo alla ricerca di pretesti per dimettersi (come Fassina che, almeno finora, non è però diventato capo di nessuna corrente come pure l’accusavano i renziani) e quindi avere le mani libere per creare problemi e intralciare il lavoro del segretario: siamo insomma al rovesciamento della realtà e a una accusa che non ha né fondamento né senso, come spiega bene lo stesso Cuperlo nella lettera di dimissioni da Presidente dell’Assemblea nazionale inviata al segretario.
Chi ragiona così e avanza accuse simili in realtà parte dal presupposto che Cuperlo – nella sua qualità di Presidente dell’Assemblea – non avesse il diritto di partecipare in maniera libera al dibattito interno al partito e che si dovesse in sostanza limitare a fare la bella statuina, cosa ovviamente inaccettabile.
Un tale modo di ragionare ha anche un altro risvolto: e cioè che c’è oggi nel PD chi pensa che o la minoranza si adatta a fare soltanto da spalla a Renzi o, diversamente, è bene che venga emarginata.
Io ricordo come, nei mesi scorsi, certi personaggi hanno spiegato le ragioni del loro appoggio a Renzi alle primarie e anche come hanno accolto il risultato dell’8 dicembre: finalmente si archivia il PCI!
Come è noto, il PCI è stato sciolto dai suoi stessi dirigenti e militanti partendo dalla consapevolezza, imposta dai cambiamenti radicali intervenuti a livello mondiale a cavallo tra la fine del ’900 e gli inizi del nuovo secolo, e dalla necessità quindi di trovare altre strade per far vivere la sinistra e i suoi valori; ma lo scioglimento del PCI non ha mai significato e non significa affatto che la tradizione politica e culturale incarnata dai comunisti nel secolo scorso non continui a vivere – oltre che nella storia – anche nella carne viva della società italiana e che quella tradizione può ancora oggi dare un contributo essenziale al futuro dell’Italia e del PD.
Ci pensino bene perciò tutti coloro che, anche all’interno del partito, si lasciano tentare dall’idea di poter emarginare e sterilizzare questa tradizione: chi ci perderebbe sarebbe innanzitutto il PD. E lo stesso Renzi ne riceverebbe un danno.
Come giustamente scrive Cuperlo a Renzi nella sua lettera di dimissioni, non possono “funzionare un organismo dirigente e una comunità politica – e un partito è in primo luogo una comunità politica – dove le riunioni si convocano, si svolgono, ma dove lo spazio e l’espressione delle differenze finiscono in una irritazione della maggioranza e, con qualche frequenza, in una conseguente delegittimazione dell’interlocutore. Non credo sia un metodo giusto, saggio, adeguato alle ambizioni di un partito come il Pd e alle speranze che questa nuova stagione, e il tuo personale successo, hanno attivato”.
A meno che anche Renzi non voglia alimentare certi retropensieri e derive plebiscitarie i cui danni abbiamo già avuto modo di sperimentare!
Il PD può funzionare se è una casa in cui tutti – a prescindere dalle posizioni che ciascuno sostiene – si sente a proprio agio; e se tutti – maggioranza e minoranza – si fanno carico fino in fondo della necessaria responsabilità nei confronti del PD e del Paese.
Sandra Zampa, nel suo intervento in Direzione, ha invitato tutti a togliersi le magliette. Un giusto invito, ma, perché le cose vadano in questa direzione, le magliette devono togliersele davvero tutti.
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