Cosa colpisce anche chi su quel confine orientale, il più tragico della penisola, non ci è nato come invece è accaduto a me e a tanti altri? Colpisce il tempo. La distanza tra eventi che hanno segnato lo spirito di un’epoca e di una terra e il momento in cui lo Stato ha dedicato a quegli eventi un giorno simbolico per ricordare e raccontare quel che accadde e ciò che causò.
Stamane Ilvo Diamanti su Repubblica spiega come il tempo, la rapidità, sia la chiave di senso della stagione che attraversiamo. L’ho letto pensando a quanto poco vicino a quello spirito sia un dopoguerra infinito come quello che abbiamo vissuto in quella parte d’Italia. La repressione fascista degli sloveni, l’italianizzazione dei loro cognomi, l’occupazione nazista della città, la Risiera di San Sabba, i quaranta giorni dell’occupazione e della violenza titina, la tragedia delle foibe, il dramma dell’esodo. E poi, molto poi, il ritorno all’Italia e la lunga coda di un conflitto che ha segnato la comunità lungo il crinale, straordinario e terribile, del combinarsi delle nazionalità.
Oggi quel dopoguerra è concluso, anche grazie alla bandiera europea. Definitivamente concluso, almeno lì dove più brutale è stata la sua continuità. Da giovane andai tra i primi militanti e dirigenti del Pci a rendere omaggio con una corona alle vittime di Basovizza. Lo ricordo come un giorno di saggezza, non mia, per carità, ma di quanti quel passaggio avevano preparato. Il tema non era, né allora né ora, vincere la prova di una memoria condivisa. Sarebbe lungo da dire e da spiegare, ma forse di fronte alle tragedie della storia il culto della condivisione non può che fermarsi dinanzi alla pietà verso i morti. Poi esiste e resiste la storia, la ricostruzione dei fatti, delle biografie, delle vittime. Poi c’è il ricordo sempre intessuto di testimonianza. E poi c’è il racconto di fatti lontani che serve a spiegare a chi è venuto dopo perché il presente è unico e in certa misura figlio di quei trascorsi.
Ricordo, memorie, racconto: solo l’intreccio di queste cose aiuta a superare i traumi della storia. Ecco perché “Magazzino 18” di Simone Cristicchi è un regalo prezioso. Perché un giovane artista romano nato decenni dopo quei fatti sale su un palco e nella tradizione dell’orazione civile racconta. L’ho visto questo suo spettacolo in una sera di ottobre al Politeama Rossetti, il teatro stabile della mia città. Ho visto due spettacoli. Quello sul palco e quello di una platea attenta e coinvolta, come non capita spesso. Poi l’applauso quasi liberatorio di chi sa, ma sentendo raccontare un pezzo del suo passato sente di poterlo condividere con altri, tanti, che magari non sanno".
Ho letto di alcune contestazioni, a volte plateali, che Cristicchi ha subito in giro per l’Italia. Chissà quale senso possono avere? Credo nessuno.
Mentre sarebbe una buona cosa se questo 10 febbraio, al netto di giuste commemorazioni, portasse il video di quel racconto nelle classi e nelle scuole a testimoniare che la memoria non si definisce per legge ma il racconto della storia – quello sì – è un patrimonio che può formare la coscienza civile di generazioni intere.
Gianni Cuperlo
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